Questa insolita mostra, che mi vede occasionalmente in veste di fotografa, nasce da un mio “inciampo” del tutto inaspettato con una piccola ma preziosissima opera d’arte che lascerà senz’altro un segno indelebile nella nostra Memoria.
Accade tutto a Pasqua del 2012. Sono a Berlino e mentre sto banalmente prelevando dei soldi a un bancomat, nella breve attesa del rilascio del denaro, la mia vista è inaspettatamente attratta da uno strano sanpietrino di colore dorato che luccica accanto ai miei piedi. Guardo con più attenzione e intravedo delle scritte. Mi chino, incuriosita, per vedere meglio, e rimango letteralmente impietrita da quanto leggo. Un nome, delle date, una località: pochi dati, ma dall’impatto devastante.
Quello strano sanpietrino ricoperto di ottone raccontava in poche righe l’inizio e la fine della Vita di un Uomo. Di uno di quei tanti uomini, ridotti a numero, deportati dai nazisti nei campi di concentramento e in seguito assassinati nei modi più ignobili e atroci.
Nel palazzo dove c’è adesso uno sportello bancomat dal quale stavo prelevando dei soldi, aveva vissuto, settanta anni prima, quel povero Uomo, e il giorno che aveva segnato l’inizio della fine della sua Vita, quell’Uomo, destinato a un atroce destino di cui era totalmente ignaro, aveva calpestato per l’ultima volta proprio quei sampietrini, su cui, in quel preciso momento, poggiavano i miei, di piedi.
Quell’”inciampo” inatteso sulla storia di un Uomo mi aveva profondamente turbato. Per tutto il giorno non pensai ad altro, poi me ne dimenticai. Fu solo per un breve intervallo però, forse il tempo necessario a far sedimentare l’entità di quell’incontro inaspettato. L’estate, prima di ripartire per la capitale tedesca, facendo una breve ricerca su internet sono venuta a conoscenza del bellissimo e coinvolgente progetto di Gunter Demnig.
Lo stolpersteine berlinese in memoria di Abraham Fromm aveva lasciato un segno profondo nella mia anima che pochi mesi dopo mi avrebbe portato ad aprire una porta su un territorio di cui fino a quel giorno non mi ero minimamente interessata. Allo stesso tempo prese inevitabilmente il via la mia personale ricerca sulla storia delle radici ebraiche della mia famiglia materna, che non avevo mai preso in considerazione, e germogliò pian piano il seme che mi avrebbe portato in seguito a scrivere un progetto di mostra. Un progetto molto più ampio, ambizioso e complesso, di quello che son qui a presentarvi oggi, finito dopo due anni di lavoro nel fondo di un cassetto da dove è riuscito, nel momento in cui avevo raggiunto evidentemente il giusto distacco emotivo, per esser trasformato in uno strumento di riflessione da proporre a bambini e ragazzi all’interno delle scuole.
Grazie alla generosità e all’entusiasmo di Christoph Meran, direttore del Forum Austriaco di Cultura Roma, cui sono infinitamente grata, il mio progetto è poi approdato nel foyer del Forum inserendo la mostra all’interno del programma per la commemorazione del Giorno della Memoria che già prevedeva il concerto del violinista Gil Morgenstern, ideato appositamente dal Maestro per quest’importante occasione.
Ciò che mi ha particolarmente colpito delle pietre d’inciampo è stata l’immediatezza e la forza del messaggio. Le targhe alla memoria hanno generalmente il sapore di un ricordo storico e storicizzato; la pietra d’inciampo, con la schiettezza delle sue poche righe, penetra nell’animo del passante in modo più immediato e diretto riconducendo, in un lampo, in un passato che ridiventa presente perché riporta alla Vita chi si volle ridurre soltanto a un numero.
Le pietre, poste di fronte alle abitazioni (e in alcuni casi di fronte ai luoghi di lavoro) dove furono presi i deportati, sono dei veri e propri sanpietrini che l’artista realizza ad hoc, applicando, sulla superficie, la placca di ottone con scritti i dati. Essendo posti a terra sono meno visibili di una targa affissa al muro, ma entrano a far parte in modo più diretto del nostro quotidiano, nel momento in cui ci accorgiamo della loro esistenza. Il nome stesso scelto dall’artista per queste sue opere, cui dedica ormai interamente la sua vita, è già di per sé indicativo dell’effetto che mira a produrre: un inciampo, di ordine simbolico, attraverso cui aprire una porta che porta inevitabilmente a una forma altra, più alta e profonda, di riflessione. La mia esperienza è in tal senso emblematica perché se il mio occhio non fosse caduto accidentalmente sullo stolpersteine berlinese, non avrei probabilmente mai spostato la mia attenzione in questo modo su questo capitolo così drammatico della nostra storia.
Per alcuni, l’idea di ricordare i deportati usando una pietra che è quotidianamente calpestata da tante persone è apparsa un ulteriore atto di sfregio alla loro memoria. Un altro punto di vista, assolutamente valido e da rispettare. Personalmente l’idea di Demnig mi è parsa subito di grande forza e impatto emotivo. Andando in giro per la città a far le foto ho anche notato che più le pietre son vissute, perché messe di fronte a edifici che si trovano in zone di ampio passaggio quotidiano di persone, più brillano e rimangono vive, mentre nei punti in cui c’è poco afflusso, appaiono spente e con le scritte sbiadite. Vedere le pietre non vissute mi ha lasciato ogni volta una grande tristezza nel cuore…
Venendo alla mostra vera e propria il mio obiettivo è stato sin dall’inizio quello di trovare un modo per riportare alla luce le storie di vita dei deportati romani per restituir loro un’identità e soprattutto la dignità. Un intento ben preciso il mio, messo in atto partendo proprio dalle pietre d’inciampo, dal solco, dunque, tracciato da Demnig col suo progetto internazionale.
Dietro ogni pietra ci sono tante storie di vita come le nostre, con i loro sogni e le loro emozioni, le loro gioie e i loro dolori… e per poterle far risorgere, una a una, ho pensato che il modo migliore era proprio di partire facendo uno scatto a quella piccola opera d’arte, d’inestimabile valore, per il semplice fatto di recare impressi i nomi e i dati dei deportati dai nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Usando una Leica digitale totalmente automatica ho quindi iniziato a ripercorrere la storia di ogni deportato romano andando a ritrarre la pietra o le pietre (perché spesso son state posate per interi nuclei famigliari), che ho poi accorpato in un unico fotogramma sotto lo scatto della soglia, l’ingresso, o la facciata del palazzo dove vissero o lavorarono e da dove furono portati via. La pietra dunque, al posto dell’Uomo, e la soglia, l’ingresso, o la facciata del palazzo, come zona di confine e passaggio tra la Vita e la Morte. Lì entravano sempre quando erano in Vita, ma da lì uscirono anche per l’ultima volta quando furono brutalmente arrestati.
Queste mie foto non sono in fondo che un mero pretesto per ripotare alla Luce le tracce di Vita perdute. Come un atto simbolico per restituire dignità e ridonare la Vita a coloro ai quali, la Vita, è stata barbaramente strappata. Un omaggio alla Vita attraverso il ricordo della Vita.
Accanto ad ogni foto, apparentemente ripetitiva, perché le pietre sono tutte uguali e, le soglie, gli androni e le facciate dei palazzi, sono spesso simili, vengono dunque puntualmente presentate le storie biografiche corrispondenti. Storie dure e di fortissimo impatto emotivo che ho potuto prendere nel sito dell’associazione Arteinmemoria (www.arteinmemoria.it) – che ringrazio ancora molto per aver patrocinato la mia iniziativa – che cura il progetto di Demnig in Italia e a cui va il merito di averle raccolte. Storie che son state in alcuni casi difficili da recuperare, perché con la fine della guerra in pochi avevano voglia di parlare e ricordare; o andate completamente perse, a causa della morte di tutti i discendenti; o ricomposte unendo i vari ricordi e racconti sentiti in famiglia, forniti, negli anni, da parenti alla lontana, del deportato e tra loro, ritrovatisi proprio per quest’occasione, affinché le ultime tracce di Vita del famigliare scomparso non si perdessero per sempre.
Venendo al lato tecnico delle foto ho volutamente realizzato gli scatti in modo veloce e istintivo, senza mai usare un cavalletto, compiendo ogni volta un piccolo sforzo perché per trovare la giusta distanza da cui cogliere l’inquadratura migliore dovevo necessariamente inchinarmi in una posizione scomoda e dall’equilibrio instabile. D’estate, d’inverno, col sole o la pioggia, mettendo in atto, con questo mio gesto, il mio personale omaggio a ognuno di loro.
Con questa mostra il mio intento è di invitarvi a compiere un viaggio personale e intimista attraverso un percorso che condurrà dall’oblio alla Memoria, dal passato al presente, al futuro.
Come la lenta lettura di un libro: sfogliando pian piano le pagine, fermandosi spesso a riflettere, per fare entrare, sedimentare, ricordare e mai più dimenticare.
E per quanto mi riguarda, non voglio essere altro che un piccolo tassello aggiunto al lavoro sulla Memoria, niente di più, e v’invito a fare altrettanto, se ve la sentite, lasciandomi un vostro pensiero.
RICORDARE PER NON DIMENTICARE
Elisabetta Giovagnoni
Roma, 24.01.2015