Somewhere over the rainbow
Per questa terza mostra del format “Affittasi/Vendesi” riprendo il filo con India Evans, mia giovane artista di punta ai tempi della galleria, di cui feci una personale nel 2005 e che portai ad Artefiera nel 2006. “Mother Nature” era il titolo della mostra. Ero incinta, elaboravo un lutto e il suo lavoro parlava di gestazione.
A distanza di nove anni India Evans ritorna in Italia con i suoi nuovi lavori e con il suo, di bimbo, che tra pochi giorni compirà due anni.
Due anni, per India, di grandi pieni, ma anche due anni di stridenti vuoti.
Da un lato la Vita, dall’altro la Morte: l’arrivo di un figlio, la perdita di un padre.
E non di un padre qualsiasi, ma di un artista, John Evans, nome di riferimento nella storia della Mail Art e del collage americano, da cui la Evans ha ereditato senz’ombra di dubbio la sua passione per questa tecnica.
Una mostra dunque, che parla di gioia e dolore, di morte e di vita, perché Vita è Morte e Vita, sempre e per sempre, in una danza infinita.
Nessuna chiusura, ma un’onda, un flusso, un passaggio, un ciclo, e allora anche un dialogo, perché no, oltre la morte e i confini dello spazio e del tempo, proprio attraverso ciò che più accomunava John a India: l’amore per l’arte, la passione per il collage.
John Evans (nato a Sioux Falls, nel South Dakota ma cresciuto in California) si trasferì a New York nel 1963, fresco di laurea all’Art Institute di Chicago. Nella Grande Mela divenne subito parte della vibrante comunità di artisti e poeti e strinse amicizia con maestri dell’arte moderna quali Alice Neel. Fu membro del movimento newyorchese Neo-Dada e fu tra i pionieri della Mail Art scambiando con Ray Johnson, di cui era ottimo amico, molte opere di Mail Art. A solo un anno dal suo arrivo a New York, Evans cambiò radicalmente rotta nella sua ricerca artistica. Pur continuando a lavorare su tele di grandi dimensioni, il 1964 sancì l’inizio della sua produzione quotidiana e metodica di collages. Un corpus di opere che conta più di 13.140 collages: un collage al giorno per ben 36 anni che alla fine del mese inseriva puntualmente in un raccoglitore fungente da diario. Pezzi unici e assolutamente originali realizzati con tutto ciò che girovagando per le strade dell’East Village aveva per un qualche motivo attratto il suo sguardo e catalizzato la sua attenzione. Scarti cartacei di ogni genere, forma e colore – dai biglietti della metro, alle etichette delle bottiglie di vino; dagli inviti a teatro, ai resti di lettere strappate – a cui aggiungeva alle volte un contorno, un commento, o elementi più prettamente autobiografici – come foto di famiglia o cartoline di amici. Un insieme di elementi poi finemente ricomposti su fogli di carta di uso comune fino a dar forma a disegni estremamente raffinati ed eleganti siglati singolarmente con un timbro che riporta la data di esecuzione. Un intreccio di tracce di memoria privata, autobiografica e collettiva, felicemente ricomposte, entro cornici delineate con tratto sicuro, a spartire la zona del foglio dove mettere in atto il processo creativo. Cornice alla cui base compare in modo ricorrente il disegno ripetuto di un’oca, espressione di gratitudine personale all’amica artista e scrittrice UrsuleMolinaro, amante degli animali e in particolar modo delle oche, che avendolo preso in simpatia agli inizi della sua carriera lo introdusse nell’ambiente artistico newyorkese.
Allo scadere del 2000 Evans smise di produrre i suoi collages quotidiani. Riprese a farne dopo sette anni, ma in maniera sporadica e di più grandi dimensioni. Le sue peregrinazioni per le strade intorno all’East Village non finirono lì. Dal 2000 al 2007 iniziò a recuperare per strada un’infinità di piccoli oggetti poi puntualmente riposti in bottiglie vitree di varie forma e grandezza. Quando nel 2007 riprese a produrre collages tornò anche alle origini del suo percorso artistico riiniziando a lavorare su grandi tele.
Con i suoi collages John Evans trasmuta i rifiuti degli altri in preziose tracce delle loro vite, perché dietro ogni singolo pezzetto di carta c’è inevitabilmente una storia privata, un momento, un pensiero, un’azione; una gioia o un dolore, un contatto o uno strappo. Da un lato dunque, l’apertura verso l’esterno, il girovagare quotidiano per le strade attorno a casa alla ricerca maniacale di tutto ciò che poteva servirli per dar voce al suo istinto creativo. Dall’altro invece, l’intimità della casa, il suo studio, il luogo della creazione vera e propria, della riappropriazione e rielaborazione delle tracce di vita altrui frammiste, alcune volte, alle proprie. Risultato di tutto ciò, un insieme di piccoli capolavori che danno indizi di mode, costumi e atmosfere di un’intera generazione, o si rivelano come testimonianze uniche e originali di momenti storici determinanti per il suo paese o il mondo.
Era una persona autentica John Evans, fare i suoi collages quotidiani era per lui un lavoro come un altro, che svolgeva con serietà e rigore all’interno delle mura domestiche, perché a casa Evans tra marito e moglie i ruoli erano invertiti. John lavorava a casa, si occupava del ménage e delle gemelle, Margaret invece, andava in ufficio la mattina e tornava la sera. Tanto amore e un ambiente ricco di stimoli per un bambino che fin dalla nascita ha vissuto in mezzo a tele, carte, pennelli e colori. Tra i ricordi più belli di India spicca proprio quello dei pomeriggi interi passati assieme ad Honor nello studio del padre a far collane e gioielli mentre lui creava collages. Un imprinting forte che non poteva che lasciare un segno indelebile, ma solo a distanza di tanti anni India si è ritrovata a ripercorrere la strada del padre. Finché visse negli Stati Uniti, non le venne mai in mente di far collages ma una volta in Italia, dove ha vissuto e studiato per diversi anni, si ritrovò a fare il primo. Un modo per India, per colmare il senso di vuoto che provava a causa della distanza che la separava dalla sua gemella, dalla sua famiglia e dai suoi affetti. Questo spiega il ricorrere così frequente nei suoi lavori di due figure di donne.
Rivedere i lavori di India Evans dopo così tanti anni è stata davvero una grande sorpresa. Le carte che sceglieva all’epoca per i suoi collages non superavano i 50×40 cm., e in essi c’era sempre un elemento fisso: una cartolina di donna dei primi del novecento. Da lì iniziava il suo processo di ricerca di sogni dimenticati, di memorie lontane, per riportare alla luce una storia interrotta e farla tornare a nuova vita filtrandola attraverso la propria esperienza e sensibilità. Passaggio questo, compiuto attraverso la trasformazione della figura di partenza aggiungendo i più diversi materiali (guanti, stoffe eleganti, piume, ali di farfalla e di uccello, fili di cotone, fiori secchi, specchi, lettere e ventagli). Adesso India Evans lavora anche su grandi formati e da poco, su tela. Nei suoi collages sono comparse dal 2009 anche delle strutture architettoniche. In esse si muovono i suoi personaggi, che siano solo figure femminili, o uomini e donne. “Credo che questo spostarmi da un contesto di natura a quello di architettura sia in parte dovuto al fatto di essermi trasferita dall’Italia a New York dove la presenza del “man made” (delle cose costruite dall’uomo) è più rilevante della presenza della natura selvaggia”, come la Evans stessa ci spiega. Anche le atmosfere sono cambiate. La componente onirica resta una caratteristica del suo linguaggio ma a partire dalla serie “Birth” (sulla gestazione), agli ultimi lavori del 2014, si percepisce chiaramente che l’artista sta andando verso una nuova e sconosciuta direzione dove forte è la presenza di una dimensione che oserei definire “metafisica”. Si tratta dei lavori realizzati a partire dal periodo in cui era incinta, quello in cui è morto il padre (quando il figlio aveva appena due mesi) e gli ultimi. Lo stato di gravidanza, così come quello di lutto e della sua successiva elaborazione, sono d’altronde momenti per antonomasia di fronte ai quali è innato e istintivo il ricollegarsi con l’Alto.
Mentre John Evans, i cui collages sono frutto del riappropriarsi di tracce di vita altrui, racchiude poi il mondo esterno, da cui si isola, nella sfera intima e privata dove compie in modo maniacale il suo quotidiano lavoro di artista, in India Evans il processo è inverso. Dalla sfera intima e privata in cui si rifugia, luogo protetto dove avviene il processo creativo, in cui forte è la presenza del mondo onirico e della sfera inconscia, la Evans ci invita con ogni suo collage a curiosare dietro il buco della serratura.
Due artisti che si raccontano raccontando, e che non potevo che presentare attraverso questo dialogo immaginario che continua oltre la morte, il tempo e lo spazio, che continua… somewhere over the rainbow…
Roma, 14 settembre 2014
India Evans
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I love you
Non avevo mai pensato che la nascita e la morte potessero presentarsi insieme, quasi a braccetto, fino al giorno in cui morì mio padre, 3-4 settimane dopo la nascita di mio figlio Leone. Da quel giorno l’immensa gioia di essere madre dovette far spazio ad un forte sentimento di dolore. Cominciai a capire che può esserci gioia anche nella sofferenza e viceversa e che nascita e morte non sono due sfere separate e indipendenti ma due modi diversi di descrivere uno stesso fenomeno, quello della vita.
Quando penso a mio padre mi vengono in mente molte immagini di me e di mia sorella gemella Honor, sedute accanto a lui, intente a creare braccialetti o a disegnare. Mi ricordo le frequenti visite a musei e gallerie, le numerose passeggiate per il Lower East Side, le sue grandi mani che avvolgevano le nostre con una stretta forte e rassicurante. La maniera attenta e affettuosa in cui ci parlava e ci ascoltava e poi la sua inconfondibile risata. Questi sono solo alcuni degli innumerevoli momenti che hanno contribuito a formare la persona che sono oggi. Mio padre ha avuto una vita ricca di eventi e li ha vissuti tutti al meglio – “la vita la vivo” – diceva spesso. E’ stato un privilegio essere sua figlia.
Mi ha insegnato cosa significhi amare e rispettare gli altri, come l’arte possa riempire la vita di ognuno, a credere in me stessa ma soprattutto mi ha ricordato che i sogni non vanno mai rincorsi ne messi da parte ma vissuti, nel presente, giorno dopo giorno. Tutto ciò fu il regalo più grande che io abbia mai ricevuto e gliene sarò sempre grata.
Thank Datz…grazie papà di essere stato la persona che eri, di aver reso così semplice e naturale l’atto di amare un padre. Mi è ancora molto difficile accettare il fatto che non potrò più abbracciarti e sentirti ridere ma il tuo spirito non potrebbe essere più forte di come lo sento ora, lo è ogni giorno di più perché vive nei cuori di che ti ha amato, nella memoria delle persone che hai incontrato. I tuoi lavori d’arte descriveranno sempre e perfettamente la tua grandezza di uomo, di padre e di artista. I love you!
Roma, 19 settembre 2014
India Evans