Cara Delphine,
vado a ritroso e mi tornano in mente tre immagini di noi due.
La prima, a Bologna. Interno notte. Alberghetto economico nei dintorni del centro.
E’ la vigilia dell’inaugurazione di Artefiera, anno 2005. La mia prima esperienza a Bologna come gallerista, e tu con me, in veste di mia assistente.
Tra una revisione listino prezzi ed un commento sulle acconciature appena fatte, da un parrucchiere mediocre e per giunta caro, ci inoltriamo in arditi discorsi sui massimi sistemi. L’adrenalina è tanta, pari all’ansia da prestazione.
La seconda, a Roma. Esterno al tramonto. Terrazzo di casa mia.
E’ metà maggio circa, uno di quei maggi di un tempo: caldo e di sapore semi-estivo, dall’aria pervasa dal profumo dei rincospermum che rallegrano i terrazzi del centro.
Guardiamo Paolo affascinate ed attente mentre ci mostra alcuni longevity. Il cielo è azzurro-rosato ed i gabbiani volteggiano sopra di noi.
La terza infine, è un immagine forte e tenera al tempo stesso.
Orte. Interno giorno. Inverno.
Siamo in campagna, circa novembre, con Alfredo, Paolo, Alessio, India.
La tua mano, forte, è poggiata sulla mia grande pancia… Sono al settimo mese circa di gravidanza. Elaboro un lutto generando 2 Vite.
Ti ho lasciata che muovevi i tuoi primi passi nel mondo dell’arte: scrittura, disegno, fotografia, piccole sculture… Ti ritrovo ora, dopo ben sette anni in cui ci siamo totalmente perse di vista, più intensa che mai. Il tuo lavoro mi affascina, mi emoziona e mi mette anche un po’ “in soggezione”, ad esser sincera fino in fondo. Uso questo termine forte perché credo ci voglia grande coraggio a cimentarsi con la scultura. Direi che a suscitarmi questo sentimento è piuttosto tutto ciò che intravedo dietro, a lato e oltre il tuo lavoro, che percepisco come fosse un ponte che tu hai inconsciamente gettato tra la dimensione del visibile e quella del non-visibile, come a voler intrecciare, con ogni tuo pezzo, un dialogo personale con quel misterioso mondo che ci circonda, proteggendoci, ma che non abbiamo gli strumenti per decriptare, in questa nostra limitata Veste umana, salvo in rari momenti di quiete interiore. La tua ricerca in questo senso è assolutamente rigorosa e si evince in tutti quei momenti – e standoti accanto se ne notano tanti – in cui, con fare poetico ed entusiasmo fanciullesco, hai la capacità di illuminarti di fronte al dettaglio di una strada, percorsa mille volte, ma mai notato prima, riuscendo a trasformare un momento banale in qualcosa di unico e prezioso.
Volendo provare a rintracciare un filo conduttore di tutto il tuo lavoro mi viene in mente una breve frase appuntata su un foglio, proprio nel periodo della mia prima gravidanza, che coincise per me con l’elaborazione di un Lutto: “la dolce struggente presenza dell’assenza” ma parlerei, nel tuo caso, di “presenza dell’assenza” tout-court.
Attraverso il tuo lavoro sembrerebbe che tu ti riappropriassi di ciò che c’è oltre il Visibile sottolineando, attraverso la scultura, come tu stessa dici, le qualità del vuoto, e rivalorizzando dunque l’assenza e l’invisibilità, intesi come valori dello spazio, quanto la presenza e la visibilità.
Con fare volitivo, ma delicatezza estrema, ti appropri dello spazio ridefinendone i confini per poi invitare l’osservatore a prendere coscienza di quanto instabile può essere in fondo la percezione.
Col tuo scatto fotografico delle Nostre Mura Aureliane hai immortalato, oltre il tempo, il Tuo Maestro della forma. Possenti ma innalzate verso il cielo, svelano forme nella forma saldamente radicate nello spazio. Attraverso i tuoi disegni, corpus autonomo e non solo traccia per altri lavori, indaghi l’oltre dello spazio calibrando con accuratezza i piani di colore per svelarne le parti nascoste. Con le lastre, patinate, riempi lo spazio senza mai opprimerlo ma lasciando un margine ad altre percezioni visive. Con le forme, realizzate con il quadrello di ferro, inviti noi tutti ad affinare la percezione visiva per accogliere nella visione globale dell’oggetto anche la parte apparentemente invisibile definita dall’ombra. Con l’installazione creata con la corda elastica ci immetti nella fruibilità fisica della scultura invitandoci ad osservare attentamente laddove la forma si moltiplica per via dell’ombra. Con i disegni infine, su lastre di vetro, ci presenti un nuovo linguaggio, a cavallo tra pittura e scultura, incitandoci ad assaporare le varie sfaccettature della prospettiva.
Ti ho ritrovato ora, dopo ben sette anni, e tra vibrazioni e risonanze mi approprio, per finire, di una piccola frase che tu usi spesso: è incredibile. Assolutamente!
Fino a pochi mesi fa chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo ritrovate a condividere questa nuova avventura!
Betta
Roma, 4 maggio 2014
Cara Betta,
quando ci siamo conosciute, non sapevo come continuare a cominciare, ero appena uscita dall’accademia ed ero perplessa.
Ricordo la tua mobilità, se cerco di visualizzare il tuo viso ad esempio, mi appare il più delle volte in movimento, con la chioma dei tuoi capelli nella luce.
Allora, avevi aperto la tua galleria da qualche anno, Via della Vetrina 9, e cercavi un assistente.
Nella mia ricerca, ero alle prese con dubbi e resistenze e avevo pensato che se l’arte era così restia a farsi conoscere da dentro, avrei potuto intanto imparare a conoscerla da fuori, il vasto mondo dell’arte contemporanea era un continente vivo.
Anche come giovane gallerista ti ricordo sempre in movimento.
C’era nel tuo fare una dinamicità che mi incuriosiva.
Mi incoraggiavi continuamente.
L’autunno scorso, sei venuta a trovarmi a studio per vedere il mio lavoro dopo anni di distanza, quasi 10 da quando abbiamo lavorato insieme.
Mi torna in mente il derviscio che abbiamo visto l’altra sera e che ha girato per ore per raccontare i misteri dei tempi antichi. E mi sembra che la presenza delle persone nella nostra vita possa anch’essa descrivere vaste circonvoluzioni, talvolta scompariamo gli uni agli altri, per riapparire più in là ma è sempre lo stesso movimento che ci porta.
Siamo uniti dal profondo mistero che sta dietro alle nostre vite e al loro senso profondo, alla loro sostanza.
Mi hai proposto di partecipare ad una collettiva con India Evans e una terza artista e pensavi ad una mostra sulla violenza. Non avevo la minima idea di come avrei potuto aderire al tema ma hai rapidamente risolto la questione pensando ad una mia personale e a una doppia personale di India con suo padre, John Evans, o meglio con le opere di lui.
Da quell’istante, ci siamo addentrate nel lavoro, tu nel tuo che consiste in un nuovo progetto nel quale ti senti sicuramente più a tuo agio, perché itinerante, perché libero dalla fissità di un luogo unico, permette alla tua mobilità di sbocciare, e io in questa personale che si è ancora ampliata idealmente quando Marialda ci ha proposto il suo appartamento di 200 mq, nella via parallela alla primissima via dove ho vissuto a Roma.
Anche in questo ritorno sui luoghi del mio passato romano, vedo lo stesso movimento roteante esplicitarsi e portarmi idealmente a considerare che ho compiuto una circonvoluzione.
Spesso, mi dico che è ora che mi occupi di cose serie.
In genere, quando penso a delle cose eventualmente serie, si avvera che in fondo, non lo sono necessariamente ma che sono ritenute tali. Le cose serie sono le cose che non abbiamo voglia di fare ma che ci diciamo di dovere fare per non sentirci soli e appartenere alla grande famiglia di quelli che fanno delle cose serie.
Quindi l’arte non è una cosa seria in questo senso. In realtà ho la sensazione che fare arte sia serio quanto giocare ai cowboys o a nascondino a 7 anni.
Quando si è bambini, si gioca ai detective, ai venditori, ai piloti di formula uno, di aerei, a tutto ma non all’artista.
Per lo meno, non ci ho mai giocato.
Così, ho cominciato a l’età adulta. Con la stessa serietà che mettevo a giocare all’Uomo Invisibile o ai Sette Orologi.
E mi sembra che questo fare catalizzi attorno a sé, in modo speculare, il fare serio di alcune altre persone il cui destino incrocia il mio, così com’è capitato con te.
Si prosegue insieme, in un sodalizio fertile e caldo, concretizzando i rispettivi intenti con la sensazione di toccare qualcosa di sostanziale inerente alla propria vita.
E perché si lavorerebbe se non fosse per questo?
Sei tornata nella mia vita l’autunno scorso dopo la morte di entrambi i miei genitori. Alcune volte mi hai chiamato e chiesto cosa stavo facendo, se stavo lavorando alla nostra mostra e ti rispondevo che stavo piangendo e che avevo sbagliato sicuramente tutto, la tua voce dall’altra parte del filo invisibile era all’improvviso ferma e calda, solida come la certezza che si ha la forza di affrontare assolutamente tutto se ci è dato di viverlo e infatti tenevo in mano questo filo sottile e reale e sapevo che stavo ritrovando la via di Casa.
Sono felice che tu appartenga a questo Viaggio.
Delphine
Roma , 8 maggio 2014
Alcune considerazioni sul mio lavoro.
La scultura è volentieri intesa come oggetto, in questo caso, la si guarda e la si apprezza come si guarda e si apprezza un’immagine.
Per quanto mi riguarda invece, sotto-linea le qualità del vuoto rapportandosi ad esso tramite una geometria visibile. L’assenza e l’invisibilità sono valori dello spazio quanto la presenza e la visibilità.
La geometria irregolare di un solido o di una superficie (anche di un solido virtuale in quanto è l’occhio a tradurre un insieme di linee in un volume) rende instabile una percezione basata solamente sull’occhio, sottolineandone la precarietà. In alcuni casi, il disegno delle ombre partecipa dell’instabilità della percezione.
Le dinamiche che scaturiscono dalla relazione tra visibile e invisibile sono alla base del mio lavoro.
L’uso di materiali industriali, poveri, sottolinea che non è tanto l’oggetto – la scultura – ad essere al centro della questione bensì la relazione che nasce dalla sua compenetrazione con lo spazio.
La scultura diventa catalizzatore della visione, rendendola possibile.
Si potrebbe usare metaforicamente l’immagine della fiamma che manifesta la presenza dell’ossigeno altrimenti inosservabile.
E’ un po’ come disobbedire a dei limiti spaziali e materiali prefissati per proporre una visione individuale che si confronta con il vuoto.
Nel disegno, cerco di fissare, attraverso delle forme transeunti che possono anche risultare impossibili, delle possibili esperienze percettive. Il limite dell’immagine è che determina una forma, non voglio determinare delle forme ma condividere l’esperienza in cui la percezione vacilla, con le certezze che la accompagnano.
Delphine Valli